ECHI DI LUCE
Ottorino De Lucchi e Raffaele Minotto

a cura di Alessandra Redaelli
La doppia mostra personale presenta le opere di Ottorino De Lucchi e Raffaele Minotto, presso la galleria PUNTO SULL’ARTE, Viale Sant’Antonio 59/61, Varese (Casbeno).
Vernissage sabato 25 gennaio, 11.00 – 13.00. La mostra prosegue fino al 1 Marzo 2025

La luce scivola radente sui pesanti tendaggi di velluto stretti in panneggi fitti, a scoprire vetrate decorate attraverso cui l’esterno si intuisce opaco e lattiginoso; gioca sulla frangia dei broccati quasi fosse la tastiera di un pianoforte; guizza sull’argento di servizi da tè complicati come pagode giapponesi, rimbalzandovi in una musica dalle tonalità tintinnanti; e poi attraversa i cristalli panciuti e bugnati; si lascia scivolare sul mogano scolpito delle sedie, facendovi scaturire incendi di piccole fiammelle; si riflette nella specchiera grande che sovrasta il camino e da lì scivola sulla pendoletta dorata, tra i petali dei fiori recisi posti simmetricamente come sentinelle e giù, fino ad attraversare la trina che scende lieve; si adagia sulle coste dei libri rilegati in pelle per poi affondare nei quadri appesi alle pareti, sfiorando le cornici lavorate e svelando avventure di cacciatori e prede, marine inquiete, cavalieri e fanciulle. E, ancora, trionfa sulle tavole imbandite, illuminando lacche e bordi dorati a contenere creme golose, rosse come sangue, alzate trionfanti di gelatine lucide e piccoli dolci dalle forme estrose guarniti di fiori, mentre il baluginio delle candele le contende il palcoscenico.

Quando Martin Scorsese comincia a lavorare al suo capolavoro “L’età dell’innocenza”, sa che alle scenografie sarà affidato un compito fondamentale: non solo le ambientazioni dovranno rispecchiare fedelmente l’atmosfera che si respira a New York, negli ambienti dell’alta società statunitense, nella seconda metà dell’Ottocento, ma dovranno “essere” quella società, respirarla, far scaturire da ogni ombra segreta e da ogni improvviso bagliore di luce le ambiguità di un mondo che cela dietro il sorriso una ferrea volontà di restare strenuamente se stesso, di espellere o cancellare qualunque elemento che solo tenti di opporsi all’ordine così faticosamente costituito. Sceglie per questo uno dei più grandi fuoriclasse del genere (oggi tre Oscar all’attivo): Dante Ferretti. Con un’abilità da prestigiatore, Ferretti riesce a instillare nel frusciare lieve dei tendaggi la determinazione della dolce May, che benché consapevole della passione del marito Newland per la cugina Ellen, manipola strategicamente situazioni e persone fino a costringere l’uomo ad abbandonare i suoi sogni. E intorno, soffocanti come il profumo dei fiori accumulati nei vasi in ogni angolo delle abitazioni, asfissianti come l’affollarsi dei ninnoli nella casa della deliziosa nonna Manson, i membri di quella società eletta tramano con May, sorridono fingendo di non sapere e intanto stringono lacci che allontaneranno per sempre i due amanti.
Se Winona Rider è un capolavoro di micidiale soavità, se Daniel Day-Lewis incarna alla perfezione la molle indecisione di chi è troppo attaccato alle proprie certezze e se Michelle Pfeiffer – che pare cesellata nell’avorio – fa sua la delusione di generazioni di donne, nulla avrebbe potuto quel cast stellare senza la sontuosa scenografia: Ferretti monta qui uno sfondo che sfondo non è mai, riuscendo a comunicare allo spettatore la sensazione che anche senza gli attori quelle poltrone, quei tendaggi pesanti, i ninnoli e i cristalli accesi dalle lame radenti di luce avrebbero raccontato la stessa storia.
È secondo un principio molto simile a questo che si snoda il lavoro minuziosissimo di Raffaele Minotto, artista che è riuscito a tradurre nella pittura contemporanea una perfetta sintesi tra la vibrazione pulviscolare degli impressionisti e il gesto deciso dell’espressionismo astratto, ma senza mai dimenticare la lezione del dettaglio imparata osservando i conterranei Canaletto e Padovanino. I suoi interni disabitati, infatti, non sono mai vuoti, ma perennemente percorsi da vibrazioni sotterranee, voci sussurrate, echi di presenze che lasciano intuire storie, memorie, gioie, rimpianti e sogni. Sui folti tappeti si ha la sensazione di poter rintracciare le orme di un passaggio, sulle poltrone si è certi di avvertire ancora il calore di un corpo che si sia appena alzato per abbandonare la stanza, il libro lasciato sul tavolino di sicuro conserva un segnalibro che ci aiuterà a rintracciare le fantasie e i pensieri di chi lo stava leggendo, mentre la grande specchiera – quella che moltiplica in mille raggi la luce che entra dalla finestra – senza dubbio conserva ancora una traccia del volto che poco fa vi si è riflesso.

L’associazione di idee con le magnifiche scenografie di Ferretti per Scorsese è tutt’altro che peregrina, perché gli ambienti d’elezione di Minotto sono gli interni di sontuosi palazzi e ville venete (da Asolo a Padova) che lui ha frequentato da bambino e che ora sono diventati la sua fonte d’ispirazione, il suo mondo, quasi un’ossessione che si potrebbe paragonare a quella di Giorgio Morandi che ogni mattina sistemava gli stessi oggetti in nuove posizioni per cogliere come quel giorno preciso, con quella precisa atmosfera, la luce li avrebbe accarezzati, mutandone la fisionomia e ribaltando la percezione.

Per prima cosa, l’artista si posiziona davanti all’inquadratura che in quel momento lo colpisce, e attende paziente – come un birdwatcher appostato nel folto del bosco – che la luce colpisca gli oggetti proprio dall’angolazione che lui sta cercando, e solo in quel momento scatta. Poi la fotografia gli servirà semplicemente come spunto, perché la prospettiva sarà resa ancora più grandangolare, ancora più spinta, di modo che lo spettatore sia catapultato direttamente dentro la tavola, e poi colori si accenderanno, le trame delle stoffe si faranno penetrabili e cangianti.
In questo senso la pittura figurativa di Minotto può essere definita senza dubbio metafisica e anche, per certi versi, concettuale. Perché è un lavoro soprattutto mentale e profondamente intellettuale quello che l’artista porta avanti e, anche, che richiede al fruitore una volta che questi abbia assaporato e goduto il primo sguardo e quel senso di golosa bellezza. Tattile e quasi sensuale è la sensazione visiva dei velluti che ricoprono le sedie e nei quali viene voglia di affondare la mano, come un suono di ottoni si alza il guizzo luminoso che serpeggia sulle superfici metalliche – sul bronzo, sugli argenti – e sulla porcellana fiorita dei vasi accoppiati sopra le consolle, mentre è fuori di dubbio che da quel bouquet lasciato a seccare e a sfarinarsi si stia levando un profumo ancora penetrante, appena mescolato a quello del pulviscolo che le lame di luce evidenziano nell’aria. Una sensazione sinestetica, dunque, che coinvolge e travolge i sensi e che lascia nelle orecchie uno stordito ronzio.

È una pittura inestricabilmente legata al concetto del tempo, quella di Minotto. Non solo il tempo che fatalmente nei suoi quadri si respira come senso di memoria, di accaduto e di passaggio; non solo il tempo di lettura, che è lungo, con lo sguardo invitato a perdersi nei dettagli, a scandagliare le ombre; ma anche il tempo del fare, che parte da un minuziosissimo disegno a matita e carboncino (disegno che a tratti, se si osserva bene, l’artista lascia emergere da alcune zone della tavola come una firma), passa attraverso il procedimento lento e attento della pittura del particolare e poi si conclude con il gesto secco – espressionista e immediato – con cui il pulviscolo chiaro va a sottolineare la direzione delle lame luminose.
Nel corso degli anni, alcuni piccoli cambiamenti sono intervenuti a modificare lievemente i dipinti dell’artista. Il più evidente è la scelta, in alcune opere, di spostare l’inquadratura fuori dalla stanza, facendo irrompere nei confini della tavola un pezzo di giardino (come nei due lavori – quasi sequenze create dallo spostarsi di una cinepresa – in cui lui racconta la cucina di una villa, con il sole che danza sulle foglie prima di scatenarsi a definire il pavimento in grosse pietre e poi si tuffa sulla tovaglia e sull’apparecchiatura scintillante fino ad arrivare alla piattaia e alla grossa pendola sul muro di fondo). Ma ci sono anche evoluzioni più strettamente concettuali, legate al modo in cui l’artista decide di vedere e di far vedere il suo mondo; come l’accendersi più vivido, quasi antinaturalistico, dei coloricome il più netto e tagliente definirsi delle ombre e delle luci (luci che si stagliano in lame quasi a inserire suggestioni astratte), come il farsi più dettagliato e analitico dello sguardo che si concentra come uno zoom fino sui quadri appesi alle pareti, quadri che un tempo erano pure suggestioni mentre oggi si spalancano al nostro sguardo rivelando paesaggi fitti di alberi, cieli tersi, figure misteriose, stanze abitate e diventando così per noi soglie magiche, come lo specchio di Alice, confini che non vediamo l’ora di attraversare per assaporare altre narrazioni, altri mondi, altre storie.

Testo critico a cura di Alessandra Redaelli

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